Il furto del tesoro della Chiesa romana dal convento di San Romano di Lucca (1314)

Nel 1312 Gentile da Montefiore (Ascoli Piceno), francescano, cardinale di San Martino ai Monti, persona di fiducia già di Bonifacio VIII e legato d’Ungheria (1307), scrisse ai monaci di Settimo nel contado fiorentino fornendo dei chiarimenti su certi contributi dai quali gli stessi chiedevano l’esenzione (vedi il mio Il cardinal Gentile, l’imperatore Enrico VII e i cistercensi di San Salvatore a Settimo, 25 agosto 2023).
Il cardinale si trovava a Lucca, città che gli doveva piacere e che aveva avuto almeno un suo intervento a favore dei religiosi qui dimoranti. Nel 1302 e 1306, infatti, con tre lettere da Roma, da Anagni e da Lione, si era dichiarato protettore delle benedettine di Santa Giustina (oggi l’ex monastero è il tribunale) e aveva loro concesso il servizio del confessore. Ora, nel 1312, avendo papa Clemente V spostato la sede a Avignone, era in città perché incaricato di una missione delicata: il trasporto in Italia del tesoro pontificio – 15 cofani dal valore di più di un milione di fiorini, secondo un esagerato cronista pistoiese –, proveniente da Assisi e diretto in Francia.
L’impresa però non gli era riuscita perché proprio a Lucca il cardinale era deceduto il 27 ottobre 1312 e i tesorieri, in attesa di ordini, avevano affidato i cofani in custodia al convento dei frati Predicatori (domenicani) di San Romano (oggi la chiesa è un laicissimo auditorium per concerti e congressi).
Altri autori scrivono, facendo un po’ di confusione, che monsignor Gentile lasciò il tesoro a San Frediano e gli effetti personali a San Romano. Invece una fonte originale, una pergamena dell’Archivio di Stato del dicembre 1314, riferisce solo del “luogo” di San Romano ... e, per mano di Giovanni Marroncini notaio e frate dei predicatori, narra il seguito della storia del tesoro.
Come premessa alla vicenda, va detto che erano i tempi dell’occupazione pisana di Lucca, avvenuta il 14 giugno 1314 ad opera di Uguccione della Faggiola, il quale, entrato in città, l’aveva conquistata commettendo ogni scelleratezza. Aveva quindi lasciato come podestà il figlio Francesco che quasi sei mesi dopo, forse perché Clemente V era morto e il conclave francese si prospettava lunghissimo e turbolento, volle occuparsi a modo suo del tesoro del cardinal Gentile.
Era “nocturno iam tempore” (di notte) – dice la pergamena –, quando tale ser Ventura originario del contado fiorentino, vicario del podestà Francesco, venne al convento dei frati predicatori con una moltitudine di uomini armati e al portinaio, che gli fece notare l’ora non decente per entrare, rispose che sarebbe entrato ugualmente e con la violenza.
Allora frate Corrado, che era il soppriore e vicario del convento (il priore doveva essere assente) giunse all’ingresso e, temendo la minacciata violenza, fece aprire “ostium porte dicti loci”, l’uscio del portone del luogo.
Entrato con gli armati, ser Ventura disse che voleva subito vedere dove era il deposito del tesoro della Chiesa romana della buona memoria del cardinal Gentile lì conservato in nome del sommo pontefice Clemente.
Il soppriore rispose che in nessun modo lo avrebbe mostrato e in più che non gli avrebbe permesso di infrangere le porte: anzi, aggiunse, avrebbe inviato dei frati a Francesco della Faggiola per accertare se davvero ser Ventura fosse il suo vicario, se era stato mandato per prendere il tesoro e se intendesse fargli fare violenza per ottenerlo.
Ser Ventura, sempre con i molti armati, ribatté al soppriore che mandasse pure i frati che voleva. Ebbero quindi il compito, ancora non credendo che “vicinos et honestas personas” potessero comportarsi in simile maniera, i frati Iacopo Gonnelle, Giovanni da Castiglione, Guglielmo Brancasecca converso “et me Iohanne Marroncini notario infrascripto”, incaricato di mettere sulla carta la vicenda. Prima di partire, i religiosi ribadirono al vicario che si astenesse dalla violenza e da far pressione, alle quali non avrebbero mai consentito.
Al palazzo dove dimorava, i frati esposero al della Faggiola ciò che era successo, protestando. L’altro li ascoltò, poi li radunò in una camera dove non c’era nessun altro al di fuori di lui e rispose loro che tutte le cose che accadevano erano volute e procedevano di sua volontà, che aveva mandato ser Ventura con gli armati perché voleva il tesoro e avrebbe comminato una pena a chi si fosse opposto ... e via via minacciando. Poi licenziò i frati che, per nulla consenzienti, protestarono ancora e contraddissero.
Tornati al convento riferirono al soppriore e agli altri la risposta avuta e dichiararono ancora una volta che in nessun modo avrebbero consentito a far toccare e ad asportare il tesoro, né per sé né per altri perché spettava solo alla Chiesa romana. Ma ser Ventura forzò ugualmente il luogo del deposito, prese i 15 cofani depositati e li portò via, i frati sempre a contraddire e a reclamare “quantum super hoc facere potuerunt”, per quanto poterono far al riguardo.
Di fatto non restò loro che mettere per scritto la vicenda, per ricordare i diritti e giustificarsi di fronte agli eventuali tesorieri pontifici che si sarebbero potuti presentare. Così nella sagrestia di San Romano fra Giovanni Marrocini scrisse il rogito che abbiamo letto e tradotto e segnò presenti i frati Corrado, Ubaldo dei Cari, Bartolomeo da Segromigno, Nicolò da Mordecastelli, Iacopo Gonnella, Giovanni da Castiglione, Accorso Casciani lettore (insegnante dello Studio), Ubaldo Perfettucci, Ugo Lucano, Giovanni da San Gimignano, Giovanni Pandolfini, Niccolò Guicciardini, Niccolò Raccherii, Iacopo Scandaleoni, Giovanni Marroncini, Romano “Araxensensi”, Deodato e Stefano degli Ugolinelli, Paolo Ricciardi e altri.
Fra Giovanni riportò anche il nome di un buon numero di testimoni laici non solo lucchesi, forse giunti al convento per via della confusione e scandalizzati da quanto era successo. Furono ser Ubertino da “Furlino” notaio, Ghifo da Petrognano del contado aretino, Bencivenni da Incisa, Dino Granucci da Firenze, Castracare da Forlì, Amissone da Montebello, Tone da Faggiola, Guiduccio da Gesso, Ciantare da Montefeltro, Lombardo da Urbino, Minuccio da Firenze, Giovannino da Faenza, Bolognino da Bologna, Tano da Cascina del contado fiorentino, Baldinotto da Brancale, Michele da Pistoia, Maestro Lombardo e Nuccio della Valle della Lima.

Paola Ircani Menichini, 5 ottobre 2023.
Tutti i diritti riservati.




L'articolo
in «pdf»